Cantico dei Cantici
Cantico dei Cantici: questo il titolo di quella stupenda raccolta di canti d’amore messi insieme da un poeta-redattore, presumibilmente intorno al IV secolo a.C. e inserita fra i testi dell’Antico Testamento.
Ma già nel 90 d.C., durante il Sinodo di Jabnch, i rabbini ebrei discussero sulla canonicità di questo libro troppo carico di sensualità e che veniva cantato perfino nelle taverne.
La lingua ebraica del Cantico porta indizi certi di un’epoca tarda, con le sue espressioni aramaizzanti ed i termini di derivazione persiana, ma annovera anche diversi arcaismi sovrapponendo così alla vecchia, la nuova eredità culturale che il popolo di Israele assume di Canaan.
Sulla base della versione greca dei Settante (III secolo a.C.), quindi della traduzione latina della Volgata curata da Girolamo fra gli anni 390 e 406, molte, nel corso dei secoli e fino ai giorni nostri, sono state le traduzioni del Cantico dei Cantici, ora con motivazioni esclusivamente esegetiche e culturali, ora con l’intento di evidenziare la ricchezza letteraria e drammatica.
A quest’ultima ragione appartiene anche il presente libro; una “traduzione” del tutto libera ed arbitraria, completamente presa dal fascino di questa storia d’amore, là dove l’amore di universalizza per diventare quella vicenda che nell’incontro, nell’abbandono, nell’esilio e nel compimento fruga i corpi al mistero della vita e della morte.
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